Chiacchierando sulla mostra. Intervista a Noemi Meneguzzo (II parte)
Continuiamo la nostra chiacchierata. Noemi riceve molte telefonate, si scusa, si alza, risponde, ritorna. E l’intervista segue i ritmi di questa danza di parole tra amici… che stanno lavorando con lei alla mostra mettendo a disposizione le proprie competenze di grafici, fotografi, giornalisti..
Qual è la genesi della mostra?
Essere un “cancer survivor” qui a Vicenza, una cittadina dieci volte più piccola della metropoli californiana dove avevo affrontato il cancro per la prima volta e in cui un cranio rasato passa inosservato, non dà esattamente le stesse emozioni di sfilare in centro col cappello degli alpini. Traduco in termini filtrati dalla ragione: ci sono alcuni fattori socio-culturali ed ambientali che rendono abbastanza difficile (e doloroso a livello emotivo) per un “survivor” gestire il cancro e viverlo come una malattia “qualsiasi”.
Innanzitutto, il sentir parlare di cancro come “un brutto male” e/o il sentirsi definire “poverina” o “sfigata” sono cose che mi fanno veramente arrabbiare. Tutte queste espressioni incutono (sì, uso proprio questo termine) nel malato la sensazione di essere spacciato, di non potercela fare perché sopraffatto da un’ombra nera che lo sta inghiottendo. La definizione di “poverina” (“puareta” in dialetto veneto) rinforza l’idea di essere un perdente. Invece mi piace pensarla come Marco, un mio compagno di viaggio, un ragazzo che per me è un esempio, che mi ha scritto in una mail “le prove difficili sono riservate a chi è in grado di affrontarle”. Ben cosciente, chiaro, che il saperle affrontare non significa necessariamente uscirne vivi. Nel mio caso, affrontare la malattia significa darle il giusto nome: cancro. E dedicargli pure una mostra.
Oltre a queste espressioni fastidiose e infelici, a rendere il cancro un peso è il fatto che qui questa malattia è ancora vista e vissuta come un tabù, qualcosa appunto da nascondere e di cui vergognarsi. All’ospedale, in tutti questi mesi di frequentazione, ho incontrato soltanto una donna che, come me, girava a capo scoperto, senza parrucca, berretto o foulard. Certo, si tratta anche di una questione estetica, ma avete mai provato ad indossare una parrucca per una giornata intera, magari portando pure gli occhiali? O a tenere un berrettino di lana mentre si ha una vampata di calore e la testa gronda sudore? Insomma: ho il cancro. Non ho ucciso nessuno. Punto. E smettetela di guardarmi con compassione, meraviglia o scherno. Mi e’ stato passato un libretto dal titolo, “Ho il cancro. E allora?”.
Detto questo, per tornare alla mostra, le foto principali le avevo già. E sono i due autoscatti sui quali Marco Legumi, grafico e co-curatore della mostra, ha dovuto sudare sette camicie per renderli “decenti” proprio perché, essendo il cuore dell’exhibition, ho voluto tenerli nella loro autenticità.
Devo però ringraziare in modo particolare tre persone, senza le quali la mostra sarebbe rimasta solo un sogno: Piergiorgio Lovato, per il suo entusiasmo visionario, Donatella Scalco, per il suo pragmatismo incosciente ed il sostegno costante, e Marco Legumi, per il lavoro ed il paziente affetto.
Come si svilupperà la mostra? Come sarà articolata?
La mostra si articola in quattro sezioni che propongono quattro approfondimenti che tessono un dialogo tra gli aspetti fisici della malattia, che abbiamo curato in pannelli monocromatici, e quelli psicologici, raffigurati a colori e con tecniche diverse. Il tutto strutturato in un percorso nel quale il visitatore diventa parte attiva, è chiamato a interrogarsi, a guardare ma anche a guardarsi…
La prima stanza, con foto di Raffaella Bolla e Daniela Dall’Ora, ha un carattere intimistico. E’ la stanza del “Chi sono”, omaggio alla femminilità “nascosta”. In un duplice senso: da una parte, infatti, c’è la femminilità celata dietro da quegli aspetti che le cure alterano, dall’altra c’è la femminilità nascosta in quanto “progettualità” vanificata. Mi riferisco precisamente ad alcuni dati pubblicati qualche anno fa dal Corriere della Sera: solo il 43 % delle donne ammalate di cancro ha come caregiver il proprio compagno. Questa stanza, a mio avviso, è molto poetica, malinconica.
Se vogliamo usare l’immagine dell’ellisse, la seconda stanza è uno dei due fuochi della mostra. Qui c’è prepotente la mia volontà di mostrare e di gridare “Io” donna. E’ un percorso, in cui ognuno di noi si incammina e si interroga sull’identità di genere… Uomo. Donna? Uomo. Donna? Fino ad arrivare a uno dei due autoscatti della mostra, in cui, mettendomi ironicamente nei panni di una delle donne più belle e potenti della storia, cerco di mostrare che l’essere donna va oltre ogni cicatrice e cranio calvo. Questa foto è una ri-vincita. Sul cancro. Sui pregiudizi.
La terza stanza ha un significato più ampio, anche per il richiamo alla nostra città. Se la prima ha il trepidante respiro del “chi sono” e la seconda era l’esplosione dell’“io”, la terza indica il “per chi”, ovvero le relazioni tra il “survivor” e gli altri, siano questi familiari ed amici con le migliori intenzioni o il personale sanitario quando è ancorato al “curare” piuttosto che al “prendersi cura”. In queste foto c’è anche il mio tentativo di far capire come il malato proietti negli altri le proprie paure, come mi sento guardata, come penso di essere vista – anche se a volte può trattarsi solo di un’impressione -, come interpreto.
Il passaggio all’ultima stanza, nella quale (spero) i visitatori si siederanno per parlare con me e per scrivere le proprie impressioni, è scandito da una riflessione sui confini della propria corporeità… proprio perché l’ultima stanza fornisce un respiro più ampio, una visione più aperta e in fieri della mia vicenda. Qui presento i “doni del mio cancro”. Magari qualcuno sara’ spinto a riflettere su di sé dalla mia “esibizione” e scoprirà anche i doni del proprio “cancro”. Oltre a questo carattere informale, da salotto, in questa stanza c’è l’altro fuoco dell’ellisse, l’altro importante autoscatto, l’altra foto “autentica” della mostra. I miei “ospiti” scopriranno l’origine e il significato del manifesto…“e mi sono messa a ballare”. Ed io spero che qualcuno, come la prima persona che con me lo vide per la prima volta, si emozioni ancora e sussurri “Bellissima…”.
Qual è il messaggio che vuoi lanciare?
Credo di avere già risposto. Bisogna avere la forza di dare alle cose il giusto nome: Tu cancro. E il coraggio di conoscersi e farsi riconoscere nella propria intima essenza: Io donna. Questo ci rende liberi. Sembra quasi un paradosso, ma a me la malattia ha regalato una nuova femminilità, più consapevole e matura. “Tu cancro” mi hai regalato un “io donna”. E “ammalarsi di femminilità” per me significa anche non riuscire più a fare a meno delle mie cicatrici.